A 15 anni, Melissa G. Moore scopre che il suo amato padre era il prolifico serial killer noto come Happy Face. Da adulta, cambia nome custodendo il suo segreto mentre il padre sconta l’ergastolo. Partendo dalla storia vera, la serie segue Melissa e il padre incarcerato. Dopo decenni di assenza di contatti, l’uomo trova un modo per rientrare a forza nella vita della figlia. In una corsa contro il tempo, Melissa deve scoprire se un uomo innocente sta per essere messo a morte per un crimine commesso da suo padre.
La serie è ispirata alla storia vera di Melissa G. Moore, al podcast Happy Face di iHeartPodcast e Moore e all’autobiografia Shattered Silence, scritta dalla Moore con M. Bridget Cook. La parte più drammatica e i passaggi più significativi sono presenti e il mix di mistero e dramma funziona molto bene nei primi episodi dello show per andare solo un pochino a calare d’intensità e interesse lungo il racconto. Purtroppo si percepisce sempre di più il fatto che la storia di fondo, per quanto avvincente, non sembra riuscire a giustificare la durata per tutto questo tempo.
Quello che rende ” Happy Face ” differente da altri drammi polizieschi basati su storie vere in stile crime è il fatto che non si cerca ad ogni costo di sondare la psicologia del serial killer quasi da renderlo la vittima di certe situazioni. Piuttosto il punto di vista scelto cioè quello della figlia riesce a rendere meglio l’esplorazione del trauma di essere il figlio di un assassino. Melissa scopre la verità sul padre e capisce che è un trauma non facile da gestire a cui si aggiunge la costante paura di aver ereditato l’oscurità di suo padre.
Anche le vittime sono parte centrale della storia ed ” Happy Face ” finisce per essere più un dramma familiare unito al giornalismo investigativo piuttosto che una tipica serie basata sul crimine e quindi viene lasciando da parte tutta quella componente più votata al mistero e alla tensione in crescendo in modo tale da rendere l’argomento forse più accettabile da parte del pubblico. Questo potrebbe forse portare lo stesso pubblico a non riuscire davvero a provare empatia nei confronti dei protagonisti e delle stesse vittime e quindi in definitiva a non accettare del tutto tale racconto col suo tono e stile differente dalle aspettative.
Andrea Arcuri