Blake, marito e padre di San Francisco eredita la casa d’infanzia nell’Oregon dopo la scomparsa di suo padre e convince la moglie Charlotte a prendersi una pausa dalla città e andare a visitare la proprietà con la loro giovane figlia Ginger. Ma all’arrivo la famiglia viene attaccata da un animale e si barrica all’interno della casa mentre la creatura si aggira attorno al perimetro. Con il passare della notte, però, Blake inizia a comportarsi in modo strano e Charlotte sarà costretta a decidere se il terrore all’interno della casa sia più letale di quello all’esterno.
La Blumhouse porta avanti la sua filosofia di realizzare film attraverso due filoni ideologici ben distinti; da una parte vengono usati pretesti di poco conto pieni di facili spaventi dozzinali con la speranza che il film diventi un cult e crei buon seguito nel pubblico. Dall’altra si prende un mostro o una paura e la si usa per raccontare molto altro e avere film con metafore più profonde. Il regista Leigh Whannell nel 2020 aveva portato sul grande schermo una nuova rivisitazione del personaggio dell’Uomo Invisibile raccontandolo come una metafora degli abusi verso una donna e di come spesso non vengono presi seriamente perché … non visibili.
“Wolf Man” usa quindi uno dei grandi mostri classici per parlare di come l’educazione dei propri figli vada anche a creare qualcosa di spaventoso nel tempo. Dai genitori si ereditano gli aspetti migliori ma anche comportamenti, fobie e ossessioni. In fin dei conti cerchiamo di proteggere la nostra prole senza pensare che forse potremmo arrivare al punto di far loro del male.
Certo anche questo nuovo film sul lupo mannaro fa uso di atmosfere sinistre, spaventi che sbucano dietro agli angoli e orrore di vario genere come il fatto di vedere una persona amata diventare un pericolo incontrollabile. Rimane però il fatto che superando tutti i suoi aspetti di puro intrattenimento, classici nel loro progredire, ecco che viene fuori la parte più legata al sentimento e le relazioni perché il focus centrale rimangono i personaggi e le loro paure che vengono fuori in situazioni estreme.
La tensione è sempre altissima ma in maniera differente da quello che il pubblico potrebbe aspettarsi. C’è un costante e continuo senso di disagio nel vedere una persona amata che diventa altro, in preda ad istinti mai visti, che porta ad una sorta di corto-circuito nella nostra testa nel volerlo accettare come una minaccia oppure no. Tutto questo compensa la mancanza di facili jump-scare e in fin dei conti anche questo potrebbe suscitare un effetto estraniante al pubblico che forse si aspettava qualcos’altro.
Molto di questo aspetto viene enfatizzato dal fatto che “Wolf Man” è un film horror senza fronzoli con giusto un paio di passaggi ed espedienti classici ma grazie al suo essere diretto e asciutto riesce a creare poche distrazioni. Gli effetti di trucco non sono in CGI e quindi di minor impatto scenico perché realizzati a mano e quindi più sgraziati, i personaggi in scena sono pochissimi e ben delineati basando quindi il film maggiormente su interpretazioni più viscerali e infine le location sono ridotte ad alcuni minuti in città per poi passare il resto del tempo in mezzo al bosco.
Oltre alla mancanza di spaventi, ricordiamo evitati da una chiara scelta di visione, possiamo dire che lungo la visione c’è un effetto molto interessante riguardo al point-of-view passando da chi non è affetto da licantropia e chi invece è in fase di trasformazione. Nelle intenzioni si vuole enfatizzare quel senso di mancato dialogo tra le due parti e tale effetto viene reso molto bene a livello estetico e poteva essere un altro fattore di spunto interessante, peccato che venga sfruttato troppo poco e lasci un potenziale inespresso.
Infine “Wolf Man” non riprende tutti i canoni classici di questo mostro mitologico ma non vuole neanche stravolgere o inventare qualcosa di nuovo. Si propone come un film diretto che mette in scena una grande verità sull’essere genitore attraverso una storia di paura come nelle nelle migliori metafore.
Andrea Arcuri