Seguiamo un padre di famiglia, Justin Kemp durante il suo compito di giurato in un processo per omicidio di alto livello. Insieme a lui viviamo il serio dilemma morale di influenzare il verdetto della giuria e potenzialmente far condannare o assolvere un uomo accusato di omicidio.
Clint Eastwood non si smentisce mai e porta avanti il suo modo di fare cinema senza distrazioni, fronzoli e perdite di tempo infatti è famoso il suo metodo che vuole giusto un paio di tentativi per realizzare una scena senza ripetizioni estenuanti. La narrazione forte, lo stile semplice e asciutto e attori con impostazioni molto teatrali portano avanti un approccio sobrio ma non per questo banale.
Allo stesso modo possiamo dire che se la realizzazione dei suoi film è ben riconosciuta, anche i temi che tratta sono di forte impatto morale creando volutamente riflessioni che toccano le proprie convinzioni e valori personali.
Ecco che questa volta ci ritroviamo di fronte un dramma giudiziario come non se ne fanno più che mette al centro non solo la giustizia intesa a livello burocratico riguardo le leggi e di come attuarle ma soprattutto quello che succede all’interno di un uomo dilaniato da dubbi legati a cosa sia giusto fare sapendo di dover fare i conti con la propria coscienza (prima) e con la legge (dopo).
Ovviamente per fare tutto questo servono attori di altissimo livello e possiamo dire che finalmente viene dato a Nicholas Hoult un ruolo drammatico di tutto rispetto che viene ben supportato da Toni Collette e J.K. Simmons, quest’ultimo troppo poco sullo schermo e poco sfruttato.
Eastwood ci lascia con il suo ultimo film (speriamo di no) con un film intelligente e moralmente complesso che mette alla luce tutte le problematiche del sistema giudiziario Americano oltre a quelle di persona che si muovono sempre più secondo convenienza e non coscienza.
A volte e forse più di altri suoi lavori precedenti, la sceneggiatura tenda a virare verso il melodramma e forse quella parte più d’impatto emotivo manca lasciando che le riflessioni arrivino più pacate a insinuarsi nello spettatore.
Andrea Arcuri